Il Pugno del Partito: Bersani, il giardiniere tenace

Da oggi si aggiunge al “parco firme” di SP.com un caro amico, il romano (ma laziale se non erro) Nunzio.

Curerà una rubrica settimanale chiamata “Il Pugno del Partito” in totale libertà ed indipendenza (aiuto!).

A seguire il primo sassolino, anzi il primo pugno. Buona lettura
Nell’autunno del 2010 il PD si trovava in una situazione assai difficile. Da una parte un Berlusconi indebolito dalla scissione finiana ma che i sondaggi davano ancora vincente nelle urne minacciava elezioni anticipate. Dall’altra Nichi Vendola lanciava un forsennato assalto alla leadership del centrosinistra basato sulla martellante richiesta di primarie di coalizione. Da questa tenaglia Pierluigi Bersani uscì con una mossa capolavoro di cui pochi hanno compreso la sagacia. Ventilando la formazione di una “Santa Alleanza” antiberlusconiana, Bersani da una parte spaventava Berlusconi, cui una sconfitta avrebbe aperto le porte di San Vittore, dall’altra sterilizzava la minaccia vendoliana, perché il leader di una tale alleanza non avrebbe potuto certo essere scelto con le primarie. Non sapremo mai se la Santa Alleanza fosse o no un bluff, fatto sta che le urne si sono allontanate e con esse la necessità delle primarie, e Bersani ha potuto riprendere la sua strategia di lungo periodo. Perché una cosa fondamentale distingue il segretario del PD da tutti gli altri protagonisti della scena politica italiana: è l’unico capace di pensiero strategico. In un mondo di gente che ogni sera va in TV a dire la prima cosa che le passa per il capo, Bersani ha una visione complessiva sia del Paese che del ruolo del PD.
Bersani conquista la leadership del PD dopo le dimissioni di Veltroni, la cui segreteria è stata caratterizzata da uno straordinario gradimento mediatico e da una serie di sconfitte cocenti nelle urne, e sin dal principio basa la sua azione su una serie di considerazioni:
  1. La sconfitta del 2008 per il centrosinistra ha avuto dimensioni tali (circa 9 punti percentuali) da richiedere un periodo di recupero non inferiore ai 3-4 anni, anche vista la pessima impressione lasciata nell’elettorato dall’ultimo governo Prodi. Per fortuna, tuttavia, Berlusconi è ricco, potente e molto efficace in campagna elettorale, ma completamente incapace di governare. Il tempo, quindi, lavora contro di lui ed in favore del PD.
  2. Nessun governo alternativo a Berlusconi è possibile senza il PD. Il quale PD, nonostante la sconfitta, rimane la più potente organizzazione politica del Paese, l’unica presente capillarmente su tutto il territorio, e con un patrimonio immenso di militanti, amministratori e personale politico di ogni livello.
  3. Veltroni si era illuso di poter replicare nel PD i meccanismi leaderistici del PDL. Aveva quindi trascurato l’organizzazione del partito in favore di un rapporto diretto tra segretario ed elettori. In conseguenza di ciò, la struttura territoriale del PD si trovava nel caos più completo.
  4. Il PD è forte nel Paese in virtù della sua organizzazione, ed in parlamento grazie alla qualità dei suoi eletti. Viceversa, è debole sui media che o appartengono a Berlusconi oppure tendono a privilegiare di volta in volta demagoghi come Grillo, Vendola o Di Pietro.
  5.  La battaglia per l’Italia si vince al Nord. Finché il centrosinistra rimane minoritario nella parte più ricca e progredita della nazione, non può sperare di ridiventare egemone. Ed è proprio al Nord che l’esperienza di governo PDL-Lega ha fallito in modo più evidente.
Su queste fondamenta Bersani costruisce la sua azione. Il suo primo pensiero è per la riorganizzazione del partito; una nuova generazione di dirigenti viene valorizzata sul territorio, ed allo stesso tempo senza epurazioni spettacolari vengono marginalizzati tutti quegli elementi, dalla Binetti a Caleraro, che Veltroni aveva scelto come fiori all’occhiello del nuovo PD “pluriel” e che risultavano estranei ai sentimenti della base piddina. Una pax interna viene siglata con il rivale delle primarie Franceschini, cui il ruolo di capogruppo alla Camera offre grande visibilità e prestigio. Il blocco risultante da quest’alleanza risulta largamente maggioritario nel partito, mentre l’opposizione interna è ridotta ad alcune frange all’estrema destra (Veltroni e Fioroni) o sinistra (Marino e Civati), sostanzialmente ininfluenti.
La macchina organizzativa viene rimessa in moto, anche attraverso iniziative apparentemente inconcludenti come i 10 milioni di firme, che servono a motivare i militanti e rodare l’apparato.
Dal punto di vista prettamente politico, l’opposizione al governo diventa più ruvida dopo i tempi del fioretto veltroniano, ma senza mai scadere nell’insulto. Le tematiche economiche e sociali riacquistano assoluta centralità rispetto a quelle legate a giustizia ed istituzioni. La Lega riceve delle attenzioni tutte speciali: il PD non ostacola l’iter del federalismo, ma martella i padani sul loro asservimento a Berlusconi in tema di giustizia ad personam. Il tentativo di insinuare un cuneo tra base leghista e PDL è fin troppo evidente.
Alla vigilia delle elezioni amministrative, la situazione appare piuttosto positiva. Grazie anche alla grottesca incompetenza del governo ed alle boccaccesche vicende del premier, il centrodestra si trova a dover giocare la partita elettorale tutta nella propria metà campo. Roccheforti quali Milano, Trieste e Cagliari appaiono a serio rischio, i rapporti tra Lega e PDL sono ai minimi storici, ed i sondaggi segnalano addirittura un possibile sorpasso del PD sul PDL. Il centrosinistra per contro si presenta unito quasi ovunque, inattaccabile nelle proprie roccheforti (da Torino a Bologna alle regioni rosse) e con candidati di buona qualità nelle città principali. Vendola è assai ridimensionato e presidia in sostanza il lato sinistro della coalizione, Di Pietro paga la propria inconsistenza politica, il PD appare in buona forma.
Già da lunedì prossimo sapremo se i cento fiori che il giardiniere tenace Bersani ha seminato in questi mesi cominceranno a germogliare.

Nunzio


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