La fine di Osama Bin Laden per molti ha chiuso il discorso “Casa Bianca” nel 2012. L’uccisione dello sceicco del terrore, al di là degli errori comunicativi commessi dell’amministrazione USA, ha aiutato Obama a uscire dall’angolo. Negli ultimi mesi il presidente non se la passava affatto bene. La guerra in Libia ha profondamente diviso i democratici e la stessa amministrazione a stelle e strisce, vedi i contrasti tra Robert Gates e Hillary Clinton. Ma più che la guerra in Libia, che ha scontentato l’ala sinistra dei liberal, il vero ostacolo per Obama è stato il braccio di ferro sul bilancio federale che ha visto opposto Obama al presidente della commissione bilancio della Camera, il repubblicano Paul Ryan. L’accordo in extremis tra Obama e Ryan ha evitato per un soffio un nuovo “government shutdown” (1), ma i pesantissimi tagli alla spesa pubblica frutto dell’accordo hanno ulteriormente inviperito la base liberal. Addirittura il giornalista liberal Ezra Klein è arrivato a definire Obama un “repubblicano moderato”. Infine, ciliegina sulla torta, le agenzie di rating hanno declassato il debito pubblico americano. L’uccisione di Bin Laden insomma aiuta Barack Obama in un momento estremamente difficile. Secondo la media di “Real Clear Politics” il tasso d’approvazione del presidente è passato dal 45,5% al 51,6% dopo la fine di Osama Bin Laden. Tutto bene? Tutto tranquillo per il presidente nel 2012? Mah, non direi. Come si suol dire, mai vendere la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato. Nel corso della storia più volte presidenti o capi di governo dati per rieletti dopo avvenimenti di portata straordinaria sono poi clamorosamente periti alle urne. Il caso più conosciuto e clamoroso è quello di Winston Churchill. Pochi mesi dopo la vittoria nella II Guerra Mondiale, i britannici mandarono a casa Churchill e lo sostituirono col laburista Clement Attlee. Una sorpresa clamorosa, resa ancor più eclatante dal risultato. Il Labour sfiorava il 50% dei voti e si accaparrava il 61% dei collegi e i Tories fermi al 36% dei voti e al 31% dei collegi. Per vedere risultati del genere replicarsi il Labour dovette aspettare l’ascesa di Tony Blair, giusto per spiegarci. Cosa possa aver spinto i sudditi di Sua Maestà a mandare a casa l’uomo che li aveva appena portati ad avere ragione di Hitler è fonte di dibattito. La semplice regola dell’alternanza, probabilmente fisiologica dopo 10 anni di premier conservatori, non credo basti a spiegare un KO di queste proporzioni. Forse Churchill risultò eccessivamente brusco e tracotante in campagna elettorale, oppure le proposte assistenzialiste del Labour risultavano molto più attraenti in un Regno Unito stremato dalla guerra. Fatto sta che nel giro di pochi mesi Churchill passò dall’essere l’uomo più popolare del Regno Unito all’essere colui che guidò il partito Conservatore a una delle più grandi batoste della sua storia recente. Altro esempio made in USA. Correva l’anno 1991 e l’inquilino della Casa Bianca era George Bush senior, il quale aveva visto la caduta del Muro di Berlino e il crollo del Blocco Sovietico. Un bottino ulteriormente impreziosito dalla gemma della I Guerra del Golfo. Alla fine del primo conflitto contro Saddam Hussein la popolarità dell’inquilino della Casa Bianca era a livelli mai visti, 89%. Praticamente nessuno in campo democratico sperava di battere Bush e il candidato democratico più in vista, il governatore di New York Mario Cuomo, si defilò con l’obiettivo di aspettare il 1996. La field Democratica era piuttosto debole in sostanza. Nel frattempo però arrivò la recessione dei primi anni ’90 e l’amministrazione Bush fu incolpata delle politiche. Le primarie repubblicane, che per il presidente dovevano essere una mera formalità, mostrarono divisioni nel campo conservatore. Bush senior venne sfidato “da destra” dal giornalista conservatore Pat Buchanan. Il 23% dei voti popolari ottenuti dall’ultra-conservatore Buchanan dimostravano che nel GOP v’erano parecchi malumori. Intanto in casa democratica si consumava una lotta fratricida tra l’allora sconosciuto ex governatore dell’Arkansas, Bill Clinton e l’ex governatore della California Jerry Brown. Una sfida che, per asprezza dei toni e spaccature nelle file liberal potrebbe ricordare quella tra Obama e Hillary Clinton nel 2008. Il turning point che diede a Bill Clinton la vittoria furono le primarie di New York. L’annuncio da parte di Jerry Brown della possibile candidatura a vice-presidente dell’attivista afroamericano Jesse Jackson, rappresentante della sinistra più radicale, spaventò l’elettorato moderato e gli investitori che riversarono su Bill Clinton i loro voti e i loro fondi. Nel mentre arrivava la notizia di una candidatura “terza”, quella del miliardario Henry Ross-Perot. La campagna populista di Ross-Perot, concentrata soprattutto su un deciso no al NAFTA, si rivelò inizialmente estremamente efficace, tanto da portarlo in prima posizione nei sondaggi, davanti a Bush e con Clinton relegato in terza posizione. Il ritiro momentaneo di Ross-Perot (2) e una convention particolarmente riuscita ribaltarono la situazione e portarono Clinton in testa. Il rientro di Ross-Perot e i dibattiti presidenziali, per la prima (e finora unica) volta a tre, non permisero al presidente in carica di ribaltare la situazione. Il 3 Novembre Bill Clinton diveniva presidente degli Stati Uniti con il 43% dei suffragi e 370 voti elettorali contro il 37% di Bush senior (168 EV) ed il 19% di Henry Ross-Perot. La recessione economica e la candidatura di Ross-Perot (3) fecero rapidamente dimenticare agli americani i successi di Bush senior in politica estera. Terzo ed ultimo esempio, le mid-term del 1918. Woodrow Wilson aveva quasi vinto la I Guerra Mondiale e una settimana dopo le mid-term sarebbe finita con la vittoria delle Forze dell’Intesa alleate degli Stati Uniti. La partecipazione americana nella I Guerra Mondiale era stata a lungo osteggiata dai repubblicani, all’epoca formazione nettamente isolazionista, e dall’opinione pubblica che non voleva saperne di partecipare al sanguinoso conflitto europeo. L’affondamento del Lusitania convinse i repubblicani e l’opinione pubblica a concedere a Wilson l’autorizzazione a intervenire. Il favore dell’opinione pubblica e dei repubblicani alla guerra fu però assai effimero. La campagna per le elezioni di metà mandato del 1918, che coinvolgeva tutti i collegi della Camera e un terzo dei seggi del Senato, si tramutò in un referendum sulla politica estera di Woodrow Wilson e l’esito fu chiaro, netto e inequivocabile. La politica estera di Woodrow Wilson era bocciata senza appello. I democratici perdevano 25 seggi alla Camera e 7 seggi al Senato, consegnando la maggioranza ai repubblicani in ambo le assise. I repubblicani, che avevano osteggiato a lungo l’entrata in guerra, bloccarono l’entrata degli USA nella Società delle Nazioni. Due anni più tardi, con l’ascesa alla Casa Bianca di Warren Harding, eletto col 60% dei suffragi, si avviò un lungo dominio repubblicano a cui pose fine la crisi del ’29. Durante questi 12 anni di governo i repubblicani avviarono una commissione d’inchiesta sulle vere ragioni che portarono Wilson a tradire le promesse elettorali e a far entrare gli Stati Uniti nel primo conflitto mondiale. Peccato che i risultati della commissione siano stati dimenticati perché spiegavano molte cosette sul I conflitto mondiale. In sostanza, l’uccisione di Bin Laden un bel colpo per l’inquilino della Casa Bianca, ma la guerra è appena cominciata. Obama ha giocato l’asso di Briscola alla prima mano per prendere un due di spade. Ha preso 11 punti, ma ha già sprecato la carta più preziosa. Se i dati macro-economici continueranno ad andare male, nessuna testa di Bin Laden potrà salvare l’inquilino della Casa Bianca.
Giovanni
(1) In parole povere la versione USA della nostra “Amministrazione Provvisoria”
(2) Si ritirò ad Agosto sostenendo di non poter ottenere la maggioranza assoluta dei “Voti Elettorali”. Nel caso in cui nessun candidato ottenga la maggioranza assoluta dei “Voti Elettorali” l’elezione del presidente spetta al Congresso, dove la formazione di Ross-Perot non aveva nessun rappresentante.
(3) La cosa era resa evidente dal risultato delle Mid-Term del 1994 dove il 67% degli elettori di Ross-Perot votò per i candidati repubblicani