Massimo Fini su Ariannaeditrice.it
Il pulpito, lo ammetto, non è dei migliori, ma Muhammar Gheddafi, nel suo turbinoso viaggio romano, due cose ineccepibili le ha dette: 1) I partiti non sono la democrazia ma la sua degenerazione; 2) L’alternanza non significa altro che a un’oligarchia di potere se ne sostituisce un’altra. La prima affermazione potrebbe essere condivisa da Stuart Mill e Locke, i padri nobili della liberaldemocrazia, che nelle loro opere non fanno mai cenno ai partiti. E Max Weber, nel 1920, nota come, fino ad allora in nessuna Costituzione democratica fossero inseriti i partiti. E persino la nostra Costituzione, che pure nasce da un substrato partitocratico (il Cln) dedica ai partiti un solo articolo (il 49) non fra i primi e, soprattutto, non compreso fra quei “Principi fondamentali”, inalienabili, che stanno alla base della Carta. La diffidenza, anzi l’ostilità, dei pensatori liberali nei confronti dei partiti è facilmente comprensibile. Il pensiero liberale voleva valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell’individuo, del singolo, mettendo tutti i cittadini alla pari almeno sulla linea di partenza (poi vinca il migliore, ma anche qui con alcune limitazioni in campo economico dove Adam Smith e David Ricardo bollano l’oligopolio, o peggio il monopolio, come illiberali e illiberisti in quanto rendite di posizione che falsano o addirittura impediscono la gara). Ora, il partito, la lobby o qualsiasi altro tipo di consorteria, lede in radice questo principio dell’uguaglianza sul nastro di partenza. La scuola elitista italiana dei primi del ‘900, Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Gaetano Mosca, ha detto cose definitive in proposito. Scrive Mosca in La classe politica “cento che agiscano sempre d’intesa e di concerto gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo tra di loro”. E qui ci si lega alla seconda affermazione di Gheddafi. La democrazia rappresentativa non è la democrazia. È un sistema di “poliarchie” come si esprime pudicamente Giovanni Sartori o, per dirla col nostro linguaggio un po’ più crudo, di minoranze organizzate, di oligarchie, di lobbies, di mafie, di aristocrazie mascherate che pretendono l’obbedienza in cambio di vantaggi e che schiacciano l’individuo, il singolo, l’uomo libero, che ha ancora coscienza della propria dignità e non accetta di sottomettersi a questi umilianti infeudamenti, cioè proprio il soggetto che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata. Nota Pareto: “Abbiamo ora, sotto diversa forma, una nuova feudalità che, in parte, riproduce la sostanza dell’antica. Ai tempi di questa i signori radunavano i vassalli per fare la guerra e, se conseguivano vittoria, li ricompensavano col bottino. Oggi i politicanti operano nello stesso modo e radunano le loro truppe per le elezioni, per compiere atti di violenza e per conseguire per tale modo utili che la parte vittoriosa si gode”. Ma fra le aristocrazie storiche e quelle attuali, mascherate sotto la forma democratica, ci sono almeno due differenze sostanziali. I nobili avevano alcuni rilevanti privilegi, non lavoravano, non pagavano le tasse, avevano un diritto diverso dal resto della popolazione (esattamente come i nostri parlamentari, i quali non lavorano, non pagano le tasse su una quota altissima, 100 mila euro, dei loro già rilevanti emolumenti, si sono costruiti di fatto un diritto proprio – vedi le varie immunità e impunità fino al culmine del “lodo Alfano” una sottrazione al diritto penale di cui nemmeno il re feudale godeva) a petto dei quali avevano però anche degli obblighi: a loro spettava la difesa del territorio, e quindi il mestiere delle armi, inoltre dovevano amministrare la giustizia nei loro feudi. I politici democratici hanno i privilegi delle aristocrazie senza averne gli obblighi. La seconda differenza, ancora più incisiva, è la seguente. Gli appartenenti alle aristocrazie storiche si distinguono perché posseggono delle qualità specifiche, vere o anche presunte ma comIl pulpito, lo ammetto, non è dei migliori, ma Muhammar Gheddafi, nel suo turbinoso viaggio romano, due cose ineccepibili le ha dette: 1) I partiti non sono la democrazia ma la sua degenerazione; 2) L’alternanza non significa altro che a un’oligarchia di potere se ne sostituisce un’altra. La prima affermazione potrebbe essere condivisa da Stuart Mill e Locke, i padri nobili della liberaldemocrazia, che nelle loro opere non fanno mai cenno ai partiti. E Max Weber, nel 1920, nota come, fino ad allora in nessuna Costituzione democratica fossero inseriti i partiti. E persino la nostra Costituzione, che pure nasce da un substrato partitocratico (il Cln) dedica ai partiti un solo articolo (il 49) non fra i primi e, soprattutto, non compreso fra quei “Principi fondamentali”, inalienabili, che stanno alla base della Carta. La diffidenza, anzi l’ostilità, dei pensatori liberali nei confronti dei partiti è facilmente comprensibile. Il pensiero liberale voleva valorizzare meriti, capacità, potenzialità dell’individuo, del singolo, mettendo tutti i cittadini alla pari almeno sulla linea di partenza (poi vinca il migliore, ma anche qui con alcune limitazioni in campo economico dove Adam Smith e David Ricardo bollano l’oligopolio, o peggio il monopolio, come illiberali e illiberisti in quanto rendite di posizione che falsano o addirittura impediscono la gara). Ora, il partito, la lobby o qualsiasi altro tipo di consorteria, lede in radice questo principio dell’uguaglianza sul nastro di partenza. La scuola elitista italiana dei primi del ‘900, Vilfredo Pareto, Roberto Michels, Gaetano Mosca, ha detto cose definitive in proposito. Scrive Mosca in La classe politica “cento che agiscano sempre d’intesa e di concerto gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo tra di loro”. E qui ci si lega alla seconda affermazione di Gheddafi. La democrazia rappresentativa non è la democrazia. È un sistema di “poliarchie” come si esprime pudicamente Giovanni Sartori o, per dirla col nostro linguaggio un po’ più crudo, di minoranze organizzate, di oligarchie, di lobbies, di mafie, di aristocrazie mascherate che pretendono l’obbedienza in cambio di vantaggi e che schiacciano l’individuo, il singolo, l’uomo libero, che ha ancora coscienza della propria dignità e non accetta di sottomettersi a questi umilianti infeudamenti, cioè proprio il soggetto che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata. Nota Pareto: “Abbiamo ora, sotto diversa forma, una nuova feudalità che, in parte, riproduce la sostanza dell’antica. Ai tempi di questa i signori radunavano i vassalli per fare la guerra e, se conseguivano vittoria, li ricompensavano col bottino. Oggi i politicanti operano nello stesso modo e radunano le loro truppe per le elezioni, per compiere atti di violenza e per conseguire per tale modo utili che la parte vittoriosa si gode”. Ma fra le aristocrazie storiche e quelle attuali, mascherate sotto la forma democratica, ci sono almeno due differenze sostanziali. I nobili avevano alcuni rilevanti privilegi, non lavoravano, non pagavano le tasse, avevano un diritto diverso dal resto della popolazione (esattamente come i nostri parlamentari, i quali non lavorano, non pagano le tasse su una quota altissima, 100 mila euro, dei loro già rilevanti emolumenti, si sono costruiti di fatto un diritto proprio – vedi le varie immunità e impunità fino al culmine del “lodo Alfano” una sottrazione al diritto penale di cui nemmeno il re feudale godeva) a petto dei quali avevano però anche degli obblighi: a loro spettava la difesa del territorio, e quindi il mestiere delle armi, inoltre dovevano amministrare la giustizia nei loro feudi. I politici democratici hanno i privilegi delle aristocrazie senza averne gli obblighi. La seconda differenza, ancora più incisiva, è la seguente. Gli appartenenti alle aristocrazie storiche si distinguono perché posseggono delle qualità specifiche, vere o anche presunte ma comunque credute tali dalla comunità, dalle quali traggano la loro leadership e la legittimità a governare. Nel feudalesimo occidentale e orientale i nobili sono coloro che sanno portare le armi, in certe epoche dell’antico Egitto la professione di scriba conduceva alle cariche pubbliche e al potere, in Cina la conoscenza dei numerosissimi e difficili caratteri della scrittura era la base della casta dei mandarini, nella Roma repubblicana il comando, attraverso la trafila delle magistrature (questore, edile, pretore, console) andava ai giurisperiti che, in genere, erano anche uomini d’arme, in altre realtà la casta sacerdotale era creduta in possesso di doti particolari per mediare con la divinità oppure l’autorità era conferita agli anziani in quanto ritenuti detentori della saggezza (com’è ancora presso i popoli cosiddetti tradizionali). E così via. Chi appartiene alle oligarchie democratiche non ha qualità specifiche. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione unicamente, e tautologicamente, quello di fare politica. La loro legittimazione è tutta interna al meccanismo politico che le ha prodotte. Sono i professionisti della politica che vivono di politica e sulla politica secondo la lucida e spietata analisi di Max Weber. Poiché non è necessario avere alcuna qualità prepolitica (che anzi può essere d’ingombro), la selezione della nomenklatura è autoreferenziale, puramente burocratica, avviene all’interno degli apparati di partito, attraverso lotte oscure, feroci, degradanti e con un ricorso sistematico alla corruzione per procacciarsi il consenso. Oppure avviene per cooptazione sulla base della fedeltà canina dell’adepto o per un qualche capriccio del capobastone. Se quindi, per caso, l’uomo entrato in politica aveva qualche qualità la perde facendo politica in questo pantano democratico. L’oligarca democratico è perciò, necessariamente, un uomo senza qualità. La sua unica qualità è non averne alcuna. Che noi cittadini, uomini formalmente liberi, si paghi della gente perché ci comandi e ci asservisca – perché questa, e non altro, è la democrazia rappresentativa – è già espressione di un masochismo abbastanza impressionante che, come notava Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Ma che ci si sottometta ai Frattini agli Scajola ai Cicchitto alla Carfagna o domani, nell’ “alternanza” denunciata dal colonnello Gheddafi, ai Franceschini, ai Veltroni o a altre amebe di sinistra, è cosa talmente grottesca e avvilente che in altri mondi, più virili, provocherebbe rivoluzioni e bagni di sangue. Ma poiché non siamo più uomini ma delle femmine felici di prenderlo in ogni orifizio, anche nelle orecchie, tutto rimarrà così com’è. Almeno per qualche tempo ancora. Perché prima o poi, come è sempre avvenuto nella Storia, verrà anche per le democrazie l’ora della resa dei conti.