Un weekend intenso per gli appassionati di politica estera quello odierno. In un sol giorno ci ritroviamo con Argentina, Svizzera e Tunisia alle urne. Tre tappe interessanti e curiose. Cerchiamo di fare un brevissimo riassunto delle tre tappe odierne.
Sembrava finita. Sembrava che l’epopea di Nestor e Cristina Kirchner, novelli Juan ed Evita, stesse volgendo al termine dopo la sconfitta del “Fronte per la Vittoria” alle elezioni di metà mandato del 2009 che privò la formazione della sinistra peronista della maggioranza al congresso. Decisiva la scissione dell’ala destra del “Partito Giustizialista” (1) il “Peronismo Federale” di Eduardo Duhalde che contribuì alla sconfitta dei coniugi Kirchner. Criticati per lo smisurato arricchimento personale, accusati di traffici illeciti, attaccati dagli agricoltori che scioperavano per mesi contro l’aumento delle tasse sulle esportazioni, un tasso di popolarità crollato dal 60% al 20%, i Kirchner sembravano alla fine del loro dominio. A loro soccorso c’era comunque un’opposizione imbarazzante e divisa come non mai tra radicali e peronisti di destra. La stessa Cristina sembrava nulla più che la prestanome del marito Nestor, che continuava ad esser l’uomo forte di casa e candidato in pectore della sinistra peronista alla Casa Rosada nel 2011. Poi l’infarto e la morte di Nestor e l’improvviso rilancio della stessa Cristina. Un rilancio che ha convinto il sindaco di Buenos Aires, il conservatore Mauricio Macrì, a restar fuori dalla contesa. Tanto è scontata la conferma di Cristina che il candidato radicale Ricardo Alfonsin, figlio dell’ex presidente Raul, parla apertamente delle elezioni del 2015 come suo vero obiettivo. L’Argentina dopo il crack del 2001, causato dalla parità farlocca col dollaro, è tornata a correre come nell’era di Peron. Non dovendo più pagare gli interessi sul debito ripudiato, l’economia è tornata a crescere a ritmi dell’8% annui, addirittura sfuggendo alla recessione del 2009. Dopo il crack l’Argentina era precipitata in uno stato di povertà diffusa e disoccupazione galoppante. Il tasso di povertà s’impenna oltre il 50% e il tasso di disoccupazione supera il 20%. Poi, piano piano la terra di Messi si riprende lentamente. Il PIL, liberato dal fardello degli interessi, cresce dell’ 8% all’anno, il tasso di povertà scende sotto il 20% e la disoccupazione sotto il 10%. Insomma, dopo il crollo l’Argentina ha ricominciato a correre riuscendo ad agganciare la congiuntura positiva che ha investito l’America Latina nell’ultima decade. Duhalde, un tempo mentore dei Kirchner oggi loro acerrimo rivale, però avverte di non lasciarsi andare all’euforia. Secondo Duhalde la ripresa Argentina è dovuta ai consumi e non della produzione e alla forte crescita registrata dal vicino Brasile, primo partner commerciale dell’Argentina. Fatto sta che, per il momento, i numeri dan ragione a Cristina. Ancora il peronismo, nelle sue molteplici e talvolta opposte anime di destra e sinistra, rappresenta l’Argentina. Ancora oggi, a 65 anni dalla prima elezione di Peron, il giustizialismo peronista domina la politica della terra del tango ed è il riferimento del folto popolo dei descamisados, gli operai che trascinarono al potere Peron nel 1946. D’altronde mai come oggi, dopo il crollo del socialismo reale sovietico, seguito vent’anni dopo dal crollo del liberismo reale statunitense, dopo la demolizione del muro di Berlino e la prossima demolizione del muro di New York aka Wall Street, la terza via peronista sembra tanto attuale. L’idea peronista della società come corpo organico in cui ogni parte è allo stesso modo importante e necessaria, avversa sia al socialismo reale sovietico che al turbocapitalismo angloamericano, è forse da rivalutare in un mondo che consuma a debito ciò che viene prodotto da altri (2). Nel frattempo tutti in coro con lady Ciccone “Don’t cry for me Argentina…”
Media sondaggi di ottobre
Cristina Fernandez (Partido Justicialista-Frente Para la Victoria)52,3%
Hermes Binner (Partido Socialista) 14,4%
Ricardo Alfonsin (Union Civica Radical) 9,8%
Alberto Rodriguez Saa (Partido Justicialista-Peronismo Federal) 9,5%
Eduardo Duhalde (Partido Justicialista-Peronismo Federal) 7,5%
Elisa Carrio (Coalicion Civica) 2,7%
Capitolo Svizzera
Anche dalle parti di Guglielmo Tell un trionfo annunciato quello dell’UDC del giovane prodigio Toni Brunner. La formazione populista è riuscita anche stavvolta, seppur con toni meno accesi rispetto alle precedenti campagne, ad imporre i suoi temi. Stop agli immigrati, frontalieri compresi, no all’UE e no alla NATO, restano le parole d’ordine. La crisi di Fukushima sembrava poter scalfire il consenso dei populisti elvetici, ma così non è stato, almeno a vedere dai sondaggi. Nemmeno la scissione del PBD, una scissione che ricorda quella tra FPO e BZO nella vicina Austria, sembra aver tolto più di tanto alla prima formazione elvetica. L’UDC, forte dei successi nei referenda su minareti e rimpatrio di criminali stranieri mantiene saldo il primato nelle intenzioni di voto con quasi 10 punti di vantaggio sui socialisti, orfani della leader storica Micheline Calmy Rey. Il “bello” delle elezioni svizzere però arriva dopo il rinnovo del parlamento. La Svizzera possiede un curioso sistema di governo. Il consiglio federale, organo che potremmo paragonare al consiglio dei ministri, è l’organo di governo della confederazione. L’organo è eletto dal parlamento ogni quattro anni ed è un direttorio composto da sette membri e si tratta dell’unico esempio di questo tipo al mondo. Il consiglio federale è presieduto da un presidente, eletto dal parlamento a cadenza annuale tra i sette consiglieri federali, trattasi però di una carica puramente onorifica essendo egli nulla più che un primus inter pares e non avendo in sostanza nessuna competenza in più rispetto a quelle che competono il suo dipartimento. Storicamente si è sempre cercato di utilizzare un principio di proporzionalità e di dare quindi una rappresentanza ai partiti pari al loro consenso elettorale. Attualmente però v’è una stortura, provocata dall’elezione di Eveline Widmer Schlumpf. La Widmer-Schlumpf, all’epoca esponente dell’UDC, venne eletta al consiglio federale prendendo il posto del leader dell’UDC, Blocher. L’elezione fece così partire la scissione del PBD della Widmer-Schlumpf, rappresentante l’ala moderata dell’UDC. Risulta quindi nel consiglio federale che il primo partito del paese ha solo un membro, ed è invece rappresentato un partito che nei sondaggi ha circa il 3%. Vedremo se e come si sanerà questa stortura della “formula magica”. Da sottolineare la buona performance dei “Verdi Liberali” scissione di destra dei Verdi
Ultimo sondaggio disponibile su “Swissinfo.ch”, tra parentesi la differenza con il 2007
Unione Democratica di Centro 29,3% (+0,4)
Partito Socialista Svizzero 19,9 (+0,4)
Partito Liberale Radicale 15,2 (-2,5)
Partito Popolare Democratico 14,2 (-0,3)
Partito Ecologista Svizzero 9,6% (+0,3)
Verdi Liberali 4,9% (+3,5)
Partito Borghese Democratico 3,6% (+3,6)
Terza ed ultima, attualissima, tappa la Tunisia. Il paese nordafricano da cui è partita la cosiddetta “Primavera araba” arriva al suo primo appuntamento elettorale senza Ben Alì, dopo mesi di continui rinvii. Ben Alì non c’è più, i suoi uomini però sono vivi e vegeti e mantengono intatte le leve del potere. La tanto strombazzata “Primavera araba” infatti somiglia sempre più a un “Gattopardo” in versione mille e una notte, tutto cambia per non cambiare nulla. Ben Alì è scappato, al suo posto ora c’è il fido scudiero Mohamed Ghannouchi, fino a pochi mesi fa suo primo ministro. A capo del governo v’è invece Beji el Sebsi, ministro degli esteri di Bourguiba e presidente della camera con Ben Alì. Oggi le elezioni per l’assemblea costituente incaricata di modificare la costituzione del 1959. Oltre ottanta i partiti al via, a cui si sommano un centinaio di candidati indipendenti. Ultra-favorito d’obbligo è la formazione islamista “Ennahdha”, “Rinascita”. La formazione islamista prese già parte alle elezioni del 1989 ottenendo il 13% dei suffragi e piazzandosi seconda dietro all’ RCD di Ben Alì, prima di essere messo fuori legge. Il suo leader, Rachid Ghannouchi (3) è appena tornato dal ventennale esilio londinese. La formazione islamista cerca di moderare i toni rispetto al passato su temi come la sharia, il velo islamico, la parità delle donne e l’occidente. Salvo clamorose sorprese quindi la formazione islamista conquisterà la maggioranza relativa dei seggi dell’assemblea costituzionale e nei sondaggi ha un vantaggio di 10-15 punti sui principali rivali del “Partito Democratico Progressista” della pasionaria Maya Jribi. Se in quello che è ritenuto di gran lunga il paese più laico del Nordafrica una formazione islamista si appresta a conquistare la maggioranza relativa con ampio margine sui rivali, che accadrà in territori molto più devoti come Egitto e Libia? D’atronde comunque l’affermazione islamista non è affatto una sorpresa. Le prime elezioni europee dopo la II guerra mondiale videro l’ affermazione dei partiti di ispirazione cristiana in Italia, Germania, Francia, Olanda, Austria e Belgio. Era quindi altamente prevedibile che un simile processo si replicasse sull’altra sponda del Mediterraneo. Saprà reggere la fragile democrazia tunisina, oppure si tornerà presto a una nuova dittatura? Ai posteri l’ardua sentenza
Giovanni
(1) Il “Giustizialista” non sta per giustizia penale, ma per la giustizia sociale cui mira l’impianto ideologico peronista. Inoltre occhio a non usare troppo le categorie europee e di Wikipedia per i partiti sudamericani. Spesso da quelle parti destra e sinistra si confondono e queste categorie vanno utilizzate con prudenza. Proprio l’Argentina ne è un tipico esempio, con i due partiti storici, il PJ e l’UCR, che al loro interno hanno tutto e il contrario di tutto. Per dire, Wikipedia classifica l’UCR come partito di centro-sinistra, ma gli ultimi due presidenti di questo partito, Alfonsin senior e De La Rua vengon classificati come presidenti di centro-destra.
(2) Sull’epopea della prima presidenza di Peron (1946-55) e l’ affascinante ideologia peronista lettura obbligatoria “Il peronismo” di Loris Zanatta ed. Carocci
(3) Non confondete Mohamed e Rachid Ghannouchi come invece fa
“Il Post” nel suo pur pregevole reportage. I due non sono neppure parenti oltre che esser politicamente nemici per ovvie ragioni.