«Nell’autunno del 2007, poco prima che si riunisse il XVII congresso del Partito comunista cinese, uno studioso di storia è stato invitato a Zhongnanhai (l’inaccessibile quartier generale-residenza dei massimi leader del regime, nel cuore di Pechino) a tenere una conferenza ai capi del governo sulle ragioni per cui i nove più importanti imperi della storia sono crollati. A invitarlo è stato Hu Jintao, segretario generale del partito e presidente della Repubblica popolare. Da quando, nel 2002, Hu Jintao è diventato il numero uno del regime, ha invitato nel palazzo del potere degli storici a tenere conferenze su quello stesso tema per ben quarantatré volte.»
[Helwing Schmidt-Glintzer, China – Vielvölkerreich und Einheitsstaat, Mondadori. 2011, pag. X-XI].
«Schmidt-Glintzer ha scelto nella versione originale di quest’opera un titolo molto esplicito: «impero multietnico e stato unitario». Attraverso la tensione costante fra questi due aspetti – l’espansione territoriale che ha soggiogato etnie diverse, il ruolo unificante dello Stato – rivisita tutta la storia cinese con un approccio spregiudicato. Sappiamo l’uso che viene fatto oggi a Pechino del dogma della perennità territoriale, per teorizzare che il Tibet e Taiwan sono «sempre» appartenuti alla Cina. Schmidt-Glintzer ricorda invece che i confini dell’impero multietnico hanno conosciuto variazioni ampie e frequenti. L’ideologia della Grande Cina è stata utilizzata spesso per promuovere l’assimilazione delle etnie minoritarie. Una costante nel lavoro di questo studioso è l’attenzione che dedica al ruolo degli intellettuali – letterati e burocrati – come garanti dell’unità imperiale, abili manipolatori della storia, guardiani del mito della continuità. Questa funzione degli intellettuali è cruciale perché la Cina concepisce se stessa come una civiltà, non come una nazione (il concetto di nazione lo importa dall’Occidente solo a partire dall’Ottocento). La civiltà cinese ha nella cultura il suo collante più potente.»«Comprendere la Cina è un’impresa essenziale, affascinante e faticosa. Per la natura del suo regime attuale – che dal 1949 ai nostri giorni ha subìto un’evoluzione notevole ma conserva pur sempre l’impronta autoritaria del comunismo di Mao Tse-Tung questa superpotenza non è un libro aperto, non è una realtà di facile lettura. É utile cercare nella storia alcune chiavi interpretative per penetrare il «mistero» cinese, e tuttavia anche l’accesso alla verità storica è più problematico che altrove. La propaganda di regime crea uno spesso velo che distorce la comprensione non solo del presente ma persino del passato più antico, su cui si esercita una manipolazione costante. Robuste barriere linguistiche e culturali ci ostacolano. Noi occidentali siamo condizionati a nostra volta da pregiudizi ancestrali, archetipi sedimentati da secoli: la visione dell’Oriente come terra del dispotismo ci accompagna, tramandata da Erodoto a Wittfogel. Nella nostra letteratura popolare si è consolidata l’immagine della Grande Muraglia che proteggeva l’Impero di Mezzo come simbolo supremo di una civiltà superbamente ripiegata su se stessa, sprezzante di un mondo esterno popolato di «barbari». Il fatto che interi periodi della storia cinese siano stati segnati in realtà da dinastie straniere (mongoli e mancesi); la curiosità dimostrata da coloro che accolsero Marco Polo e Matteo Ricci e tollerarono in una certa misura il proselitismo di religioni venute da Occidente; l’apertura alle influenze culturali dell’India (che esportò il buddhismo) e dei mercanti islamici che percorrevano la Via della Seta e le rotte delle spezie: tutto questo non è bastato a scalfire i nostri preconcetti sul presunto isolazionismo innato della Cina. Altri stereotipi hanno una inflessione positiva. Voltaire ammirò il sistema confuciano degli esami imperiali per la selezione dei mandarini, il primo caso di pubblica amministrazione formata su base meritocratica.»«L’orientalista tedesco Helwig Schmidt-Glintzer è un avversario implacabile dei luoghi comuni. Armato di una competenza formidabile, in questo saggio demolisce il mito della «Storia unica», l’idea di una continuità cinese che attraverserebbe cinque millenni. Quella visione monolitica che lui attacca è stata tenacemente difesa dagli storiografi ufficiali delle dinastie imperiali; ha sedotto missionari e viaggiatori occidentali; infine è stata ripresa con grande disinvoltura dall’attuale classe dirigente nazional-comunista.»«Voltaire ammirò il sistema confuciano degli esami imperiali per la selezione dei mandarini, il primo caso di pubblica amministrazione formata su base meritocratica.»«La burocrazia amministrativa dell’impero, formatasi nel corso dell’unificazione a opera dei Qin e consolidatasi con la dinastia Han, fu fino alla tarda età imperiale la reale rappresentante dello stato, soprattutto a livello locale, dove il potere centrale era spesso debole. Da un punto di vista ideologico l’impero era legato fino alla sua più piccola unità alla figura dell’imperatore, un’idea che dal XII secolo fu rafforzata da una massiccia politica culturale e di indottrinamento nella quale i diversi culti fino ad allora preposti allo scopo vennero soffocati o reinterpretati. L’imperatore era nominalmente il rappresentante di tutto l’impero e aveva potere su tutti i beni e su tutte le terre del paese, ma il suo campo d’azione era per molti versi limitato. Il potere non era affatto un diritto soggettivo di chi lo deteneva. Le terre non appartenevano al sovrano. Il diritto cinese era molto più vicino al concetto di proprietà comune, concetto che dall’unificazione si legò strettamente al vastissimo potere dell’imperatore. Il sovrano non poteva quindi disporre a suo piacimento del territorio, e quanto lo potessero i principi feudali nell’ «epoca degli stati indipendenti» non è chiaro. La persona dell’imperatore e la sua funzione erano due cose distinte. Questo è il fulcro del carattere squisitamente burocratico dell’impero cinese»«In passato stato e organizzazione del potere non sempre coincidevano. L’impero cinese ha saputo verticalizzare il potere molto prima dell’Europa e fino al XX secolo ha costituito un modello in tal senso.»«Da questo punto di vista la stabilità politica è una delle caratteristiche più marcate della Cina, il che non significa affatto uniformità, quanto piuttosto capacità di apprendimento e complessità. Lo studio della dialettica tra stabilità e mobilità all’interno delle dinamiche di potere risulta perciò interessante. Chi conosce la Cina e la sua storia sa che la continuità deriva dalle strutture dei clan e in buona misura anche dalla filosofia politica e da una certa visione del mondo. Non esistevano in Cina leggi precise che regolamentassero la successione al trono. Il passaggio del potere era quindi organizzato diversamente rispetto all’Europa. Cambiamenti radicali avvennero spesso all’interno di una stessa dinastia, la cui durata può così dare l’illusione di una continuità che di fatto è solo apparente.»