Il programma nucleare nordcoreano

La Repubblica Democratica Popolare di Corea, detta anche Corea del Nord, è governata da un regime di stampo comunista fedele all’ideologia Juche (un ramo del comunismo sviluppatosi solo in questo paese, intorno alla figura del “Presidente Eterno” Kim Il-sung), in seguito alla divisione della Penisola Coreana avvenuta alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La celebre Guerra di Corea (1950-’53), scatenata dal Nord nel tentativo di annettere il Sud filo-occidentale, si risolse con uno stallo lungo il 38° parallelo; oggi vigono ancora le condizioni armistiziali di quasi 60 anni fa, senza che nessuna delle due parti si sia impegnata nella stipula di un trattato di pace. Infine, il blocco comunista cui faceva riferimento la RDPC (o DPRK in inglese) si è dissolto alla fine del XX secolo, con la scomparsa dell’URSS, e l’apertura della Cina al capitalismo. Quest’ultima è comunque rimasta l’unica potenza “amica” del regime locale, che altrimenti si sarebbe trovato in una insostenibile posizione di totale isolamento internazionale.
Nel corso degli ultimi 20 anni, però, la Corea del Nord ha potuto stringere rapporti di stretta collaborazione con il Pakistan e l’Iran. In particolare, con i primi effettuò un importante scambio di tecnologie, per cui ricevette quella delle centrifughe a gas (per l’arricchimento dell’uranio) in cambio di missili balistici. Nel frattempo, con varie vicissitudini (ritardi, dismissioni e riattivazioni) andava avanti il piccolo programma nucleare iniziato in “epoca sovietica”, soprattutto presso gli impianti di Yongbyon. La Corea del Nord, riassumendo, da questo punto di vista può contare su due piccoli punti di forza: la presenza nel propri territorio di miniere di uranio; e la presenza a Yongbyon di un vecchio reattore di I generazione, sul modello del britannico Magnox. Per quanto obsoleta, infatti, tale unità è abbastanza semplice e sicura; e soprattutto permette, anche con un grado di tecnologia relativamente arretrato, la produzione del Pu239 necessario agli ordigni nucleari.
La grande segretezza che avvolge tale programma (ed anche altri aspetti della vita del paese asiatico) rende pressoché impossibile conoscere nei dettagli i mezzi, gli sviluppi e le strategie del programma nucleare nordcoreano; bisogna quindi affidarsi a stime, supposizioni e qualche raro dato, in genere ottenuto per via indiretta o alcuni giorni dopo gli eventi.
La capacità nordcoreana di disporre di armi nucleari è stata confermata, pur tra alcune controversie, con due test sotterranei, effettuati il primo nel 2006 ed il secondo nel 2009. In entrambi i casi, la potenza dell’ordigno è rimasta sconosciuta, e può essere stimata solo tramite la magnitudine dei terremoti provocati dai test. Diverse stime e supposizioni sono disponibili sulla potenza e sul tipo degli ordigni, ma per brevità esporremo solo le stime che ci sembrano essere le più probabili. Il primo test avrebbe dato luogo ad un’esplosione dalla potenza di 0.8 chilotoni, secondo John Negroponte, direttore della US National Intelligence; il secondo, invece, di 2.4 chilotoni, secondo la Preparatory Commission for a Comprehensive Test Ban. Benché il secondo test abbia avuto un certo “successo” rispetto al primo, si può dire che tali valori sono eccessivamente bassi, ed anzi farebbero dubitare del fatto che fossero ordigni nucleari, non fosse che (per il primo test) sono stati individuati nell’aria gas compatibili con un test nucleare. I casi dunque sono due: o sono bombe miniaturizzate, che però richiederebbero livelli di tecnologia ed esperienza nettamente superiori a quelli che possono avere i nordcoreani; oppure tali ordigni non hanno funzionato correttamente, provocando delle esplosioni “parziali”.
Questo è assai probabile perché la Corea del Nord sembra seguire la strada dello sviluppo di ordigni al plutonio, più complessi. E’ possibile che, negli anni, si siano già accumulati almeno 30kg di plutonio, con i quali si possono costruire 5 o 6 bombe, che se ben sviluppate possono avere una potenza esplosiva di 20-30 chilotoni. Esse sarebbero ordigni ad “implosione”: il nucleo di plutonio (una sfera cava, con all’interno l’innesco per la reazione a catena) è circondato a sua volta da una sfera di strati di metallo (generalmente uranio), a sua volta ancora racchiusa in una sfera di esplosivo; l’esplosione della parte più esterna comprime tutto quello che è all’interno, permettendo il superamento della massa critica anche con una massa di plutonio subcritica. Se invece si fosse scelto di procedere alla costruzione di ordigni atomici tramite l’arricchimento dell’uranio, si sarebbe probabilmente puntato su una bomba “a blocchi separati”, dove uno dei due blocchi di uranio bomb grade viene lanciato contro l’altro, tramite appositi congegni esplosivi, per divenire un unico blocco supercritico. Questo ultimo tipo di bomba atomica, però, richiede (oltre all’U235) una quantità superiore di materiale fissile, che solo all’1.5% verrà fissionata: infatti tale design fu rapidamente abbandonato dalle potenze nucleari, essendo costoso ed inefficiente. Inoltre, una simile bomba sarebbe poco adatta ad essere montata su di una testata missilistica, che pare essere il vettore scelto dai nordcoreani per eventuali bombardamenti nucleari.
Un commento finale non può che andare alla strategia d’uso di tali sistemi d’arma. Possiamo fare due ipotesi anche in questo caso. La prima, che coincide con la versione ufficiale del governo nordcoreano, è che la bomba atomica serva come deterrente, per scoraggiare USA e Corea del Sud dall’intraprendere una campagna d’invasione del Nord, sul modello di quanto successo ad Afghanistan ed Irak. Tuttavia, tale scenario appare improbabile al momento, dato che il “blocco occidentale” non ha né l’interesse né il sostegno dell’opinione pubblica necessari ad intraprendere una nuova guerra d’aggressione, per non parlare della congiuntura economica critica. Inoltre, proprio sul modello iracheno, lo sviluppo di un programma nucleare militare sarebbe un ottimo casus belli per l’amministrazione americana, tra l’altro senza nemmeno la necessità di fabbricare le prove: la Corea del Nord verrebbe attaccata mentre gli ordigni, ed i relativi vettori, non sono ancora pronti all’uso; ma sappiamo che non sarà così, in questo preciso caso. L’attenzione internazionale e l’invio di aiuti (per alleviare la carestia degli anni passati) sono già stati ottenuti, e si sarebbero potuti ottenere anche in maniere meno drastiche; non pare inoltre esserci una chiara e durevole intenzione nordcoreana di proseguire i colloqui di cooperazione e riunificazione con il Sud, anzi il regime appare ancora troppo aggressivo nei comportamenti e poco convinto a fare concessioni per raggiungere un accordo, soprattutto dopo il recentissimo cambio di leadership. Ecco dunque la seconda ipotesi: invece che una funzione difensiva, l’ordigno avrebbe una funzione offensiva. E’ un’ipotesi piuttosto remota e particolare, che potremmo chiamare la teoria del matto di Filippo (o di chiunque altro l’abbia ideata prima). La Corea del Nord è, come risaputo, un paese quasi isolato nella comunità internazionale, che vive un perenne stato d’assedio e che ha gravi difficoltà economiche, finanche di approvvigionamento: potrebbe dunque guardare alla Corea del Sud come uno stato da conquistare, non solo per il vantaggio nazionalistico di riunificare la penisola coreana, ma anche per la ricchezza del vicino filoccidentale. In caso di uno scontro con armi convenzionali, tuttavia, la qualità superiore degli armamenti occidentali e l’aiuto americano renderebbero impossibile la vittoria, a meno che non si riesca subito a soverchiare le forze sulla difensiva ed a occupare la totalità della penisola coreana prima che arrivino i rinforzi americani. Un modo di procedere sarebbe appunto quello di neutralizzare immediatamente le basi aeree e navali americane nello scacchiere pacifico (oltre a quelle in Corea del Sud, pensiamo a Okinawa, Guam ecc.) In questa maniera, pochi ordigni montati su missili possono agire nell’arco di meno d’un’ora per colpire queste basi: essendo ordigni a fissione, la distruzione ed il fallout non sarebbero estesi, ma limitati ai perimetri militari e poco oltre, trattandosi di vaste aree militari (anzi, c’è pure la possibilità che tali detonazioni risultino “autopulenti”, cioè che il fallout si disperda nell’atmosfera invece che ricadere concentrato sull’obiettivo) e rendendole così inservibili fino al ripristino delle proprie funzionalità, senza causare molte vittime né danni alle aree civili circostanti. Inoltre, un simile attacco, limitato a poche strutture prettamente militari, impedirebbe agli USA di scatenare una ritorsione nucleare sul territorio nordcoreano, che causerebbe milioni di vittime civili a fronte di poche migliaia di militari caduti, scatenando un pandemonio sia alle Nazioni Unite che tra gli stessi alleati americani, e soprattutto all’interno dell’opinione pubblica americana. Per una rapida disamina dei danni che può comportare un attacco simile su una singola base, si può fare riferimento agli esperimenti condotti all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, i cui dettagli sono facilmente reperibili in rete, come ad esempio l’Operazione Crossroads (1946). Infine, una terza possibile ipotesi, è che il programma nucleare nordcoreano non abbia in realtà precisi scopi, ma sia funzionale solamente alla grandeur della leadership locale. Insomma, a nostro avviso, la RDCP dovrà al più presto tornare ai colloqui con la Corea del Sud e con la comunità internazionale, compiendo passi concreti verso gli accordi (di pace, cooperazione e riunificazione); altrimenti, non sarà tanto un problema di etica o di schieramento politico, quanto un grave campanello d’allarme sulle intenzioni strategiche del regime nordcoreano.
Filippo83
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