J Edgar, Eastwood non graffia e manca l’obiettivo

NDG Siccome il week-end la politica stanca m’è venuta una idea balzana. Magari si diversifica un po’ e ci si da allo svago. Vai con cinema e musica. Mi piacerebbe che anche altri utenti diano contributi in questo senso, voi che ne dite? Questa settimana spazio al cinema con “J. Edgar” ultima fatica di Clint Eastwood con Leonardo Di Caprio nei panni dello storico direttore dell’FBI Edgar Hoover.

Ci sono uomini che spesso finiscono per diventare più potenti dello stesso presidente. Uno di questi è J. Edgar Hoover (Leonardo Di Caprio). Direttore dell’FBI ininterrottamente dal 1924 al 1972, Hoover ha servito sotto otto presidenti ed è stato fra i protagonisti dello sviluppo dell’agenzia investigativa federale. Il film comincia con un anziano J. Edgar che racconta a un sottoposto la sua carriera dal principio. Hoover comincia la sua scalata nel 1919 entrando al dipartimento di giustizia spronato dall’autoritaria madre Ann Marie (Judi Dench). Nei primi anni ’20 aiuta il dipartimento di giustizia ad aver ragione dei bombaroli radicali. A soli 29 anni nel 1924 Hoover diventa il direttore dell’FBI, al suo fianco nei successivi 40 anni la fidata segretaria Helen Gandy (Naomi Watts) e il vice e amico intimo, e forse qualcosa di più, Clyde Tolson (Armie Hammer). L’immagine di Hoover diventa ancora più popolare negli anni ’30 quando contribuisce a debellare la mafia e cattura il presunto assassino del figlio di Charles Lindbergh. Nel corso di quasi cinque decadi a capo dell’FBI Hoover introduce innovazioni decisive come l’archivio centralizzato e l’utilizzo della tecnologia scientifica, ma spesso si spinge oltre. Già, perché tra le innovazioni introdotte da Hoover v’è l’utilizzo massiccio di microspie e J. Edgar non se ne fa scrupoli pur di tenere in scacco l’establishment politico americano, perfino i presidenti non sono immuni dal dossieraggio di Hoover che difatti li ricatta senza ritegno. Addirittura sbatte con senza pudore sulla scrivania di Robert Kennedy, ministro della giustizia del fratello John, un bel dossier con le intercettazioni delle scopate adulterine di JFK e con sfacciata nonchalance comunica al “bamboccio dei Kennedy” di avere una copia del tutto. Il sodalizio perfetto con il suo vice, Clyde Tolson, si incrina quando questi dissente su come approcciarsi a Martin Luther King. Hoover ritiene il reverendo King un sovversivo legato a gruppi radicali e terroristi e intende dare in pasto alla stampa le rivelazioni scottanti sulla sua vita privata, ma Tolson non è d’accordo e dopo 40 anni di gaia amicizia il rapporto si incrina. Ultima tegola, Richard Nixon entra alla Casa Bianca. Tricky Dicky non ne può più dei metodi di Hoover e cerca di metterlo da parte.

J. Edgar Hoover è uno dei personaggi più controversi dello scorso secolo. Fondatore e direttore storico dell’FBI ha, nel bene e nel male, combattuto i nemici del suo paese risultando anche un innovatore nel campo dei metodi di indagine. Spesso però, per garantire il diritto alla sicurezza dei suoi concittadini ha oltrepassato più volte i limiti. Il messaggio che Eastwood voleva far passare è intuibile. Eastwood voleva paragonare le violazioni delle libertà civili di Hoover alla violazione delle libertà civili compiute recentemente in nome della sicurezza come il “Patriot Act” o il recente “National Defense Autorisation Act”. Eastwood però manca in pieno l’obiettivo. Il film, da denuncia sul come spesso in nome della sicurezza le libertà personali e civili vengano violate, diventa un’invettiva contro la persona di Edgar Hoover. La denuncia sociale e l’ovvio parallelo con l’attualità finiscono in secondo piano rispetto alla montagna di fango che Eastwood lancia impietosamente contro il povero Hoover. Edgar Hoover viene dipinto come un omosessuale represso, vanesio, frustrato e meschino. Un uomo nevrotico ed isterico che pur di difendere la sua creatura non esita a mettere sotto scacco pure i presidenti sotto cui ha servito. Ora, Hoover non era uno stinco di santo, ma siamo proprio sicuri che fosse realmente un uomo così perfido come lo dipinge Eastwood? Perché accanto ai demeriti l’uomo Hoover ha avuto anche tanti meriti. Ha stroncato gli anarchici bombaroli, ha sconfitto la mafia, grazie alle innovazioni scientifiche da lui introdotte nei metodi d’indagine migliaia di criminali sono stati assicurati alla giustizia. Insomma, a fianco degli eccessi andavano anche riconosciuti gli indubbi meriti del personaggio, che invece fa una magra figura a mio avviso immeritata e ingenerosa. Tra l’altro lo stesso Eastwood per lanciare le sue invettive contro Hoover spesso scade nel gossip. La relazione omosessuale tra Hoover e il suo braccio destro Clyde Tolson infatti non è mai stata provata. Pesanti indizi ci sono ed è vero, ma la certezza non c’è. Così come sono puro gossip i vari scandaletti con cui Hoover riempiva i suoi dossier sui presidenti e sui suoi avversari politici accennati nel film. Tra l’altro i gossip su Eleanor Roosvelt seguace di Saffo e Martin Luther King praticante riti dionisiaci non son poi delle grandi novità. Dato che nessuno sa cosa ci fosse realmente nei famigerati dossier di Hoover avrei voluto da Eastwood una maggiore fantasia che non riciclare gossip triti e ritriti.  Inoltre il film risulta difficile da seguire cronologicamente. Il racconto in flashback parte dalla presidenza Kennedy, poi c’è un salto in avanti arrivando all’era Nixon passando per l’era Johnson, per poi tornare indietro. Questo continuo avanti-indietro spesso risulta caotico e tra l’altro non facile da seguire per chi non ha alcune nozioni basilari di storia americana. Menzione particolare per i truccatori che hanno tentato di invecchiare Leo Di Caprio-Hoover ed Armie Hammer-Tolson con risultati tragicomici. Se ci fosse un Razzie Award per il peggior trucco, i truccatori di “J.Edgar” sarebbero sicuramente i vincitori. Per quanto riguarda gli attori discreto Leo Di Caprio che con le sue smorfie risulta abbastanza convincente nel ruolo di un Hoover sull’orlo di una crisi di nervi che ha così raggranellato la sua ottava candidatura (perdente) al Golden Globe. Impalpabile la nuova star di Hollywood, Armie Hammer (gemelli Winkelwoss in “The Social Network”) che doveva essere il contraltare di Di Caprio-Hoover (Hoover spesso chiamava Tolson il suo “alter-ego”) ma alla fine spesso risulta solo il tappetino. Solito buon lavoro della solita Judi Dench, tirannica madre di Hoover. Naomi Watts (“21 Grammi”, “The Ring”) invece sparisce quasi subito nel ruolo di Helen Gandy, e forse è meglio così. Una grande occasione persa insomma da parte di Eastwood. Per carità, rispetto al disastroso “Hereafter” siamo già un passo avanti, ma l’obiettivo è mancato in pieno.

Voto=5

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