Il Pugno del Partito: Giulio, Alì e i conti di casa Italia

Immaginate una famiglia che in seguito a difficoltà impreviste si trovi a dover fare delle economie, e che decida di risparmiare il medesimo 10% sui consumi di champagne del padre, sulle borse di Prada della madre, sull’università dei figli e sulle medicine della nonna. E che al contempo continui a mantenere una numerosa servitù formata di individui disonesti ed incapaci, per stipendiare i quali sospende i pagamenti al fornaio e al farmacista.
Se il comportamento di questa famiglia vi appare folle, sappiate che è esattamente così che il governo italiano ha affrontato la crisi degli ultimi anni.
Al ministro Tremonti viene riconosciuto, anche da osservatori di sinistra, il merito di aver mantenuto un certo rigore nei conti pubblici, evitando all’Italia il destino della Grecia o dell’Irlanda. E certamente anche un commentatore non amichevole come il Pugno deve riconoscergli una statura assolutamente non paragonabile alla variopinta corte dei miracoli che lo circonda alle riunioni del Consiglio dei Ministri. Tremonti non e’ un servo sciocco, non è un traffichino, non è una soubrette promossa sul campo per dubbi meriti. E’ un politico con molti difetti, tra cui un’insopportabile arroganza, ma è comunque un uomo di un certo valore. Tuttavia, se negli ultimi 10 anni, durante 8 dei quali Tremonti è stato ministro dell’Economia, l’Italia è stata il terzultimo paese al mondo per crescita del PIL, davanti solo ad Haiti e Zimbabwe, una qualche responsabilità lo statista di Sondrio la deve avere.
La nostra impressione è che non si debba considerare solo quanto si spende, ma soprattutto come. E se sul primo parametro forse Tremonti grosso modo si è ben comportato, sul secondo il bilancio delle sue politiche di tagli lineari è molto meno positivo. Esaminiamo le criticità una alla volta.
1)      La politica è stata incapace di contenere i propri costi. Quando si chiedono sacrifici importanti ai propri cittadini, anche ai più poveri, bisogna avere il coraggio perlomeno di rinunciare al barbiere gratis a Montecitorio. Al contrario, nessuno dei privilegi della casta è stato intaccato, le province continuano a moltiplicarsi con effetti anche grotteschi come la provincia tricipite Barletta-Andria-Trani, i doppi e tripli incarichi fioccano, i voli di Stato si moltiplicano, i Responsabili hanno la scorta, i capigruppo senza gruppo, i giornali senza lettori, i cognati portaborse prosperano. Al di là dei risparmi che pure non sono trascurabili (tra 1 e 2 miliardi l’anno secondo alcune stime), governare significa anzitutto dare il buon esempio. Tremonti si è imposto nel tagliare le cattedre dei licei, non sembra abbia fatto la voce altrettanto grossa coi suoi colleghi.
2)      Molti soldi sono stati semplicemente sprecati. Qui l’elenco è lungo e doloroso. Dai 3 miliardi della sciagurata operazione Alitalia, al mezzo miliardo di creste sul G8 finito nelle tasche della cricca, ai 300mln del referendum scorporato dalle elezioni per farlo fallire, alle quote latte, alla gestione allegra del comune di Catania, alle assunzioni facili all’ATAC di Roma (il cui passivo è aumentato di 60mln in un anno), al buco di 9mln dei mondiali di nuoto, alla società fantasma per l’inesistente ponte sullo Stretto, ai milioni spesi per finanziare le velleità artistiche di Michelle Bonev e di Sgarbi, e così via. In generale, è facile vedere come la spesa pubblica ad ogni livello passi attraverso l’intermediazione di un ceto politico-amministrativo spesso disonesto ed in ogni caso nominato per appartenenza politica e non per competenza. Il denaro pubblico viene utilizzato come lubrificante di carriere politiche, come ricompensa per i clientes, come premio per servigi talvolta innominabili. Non risulta che Tremonti si sia battuto per eliminare questi sprechi.
3)      Molti soldi che non sono stati sprecati, probabilmente potevano essere meglio utilizzati. Prendiamo ad esempio gli unici 2 interventi significativi in materia fiscale: l’abolizione dell’ICI sulla prima casa e la cedolare secca sugli affitti.  La prima, che come ogni riduzione delle tasse è da salutare con favore, ha avuto carattere regressivo, perché le famiglie meno abbienti erano già state esentate dal governo Prodi. Sicuro che con quegli oltre 2 mld non convenisse alleggerire il carico fiscale sulle imprese, o magari accelerare i pagamenti della pubblica amministrazione (che sotto la supervisione di Tremonti sono passati dai 138gg del 2007 ai ben 186gg del 2010)? Identico effetto regressivo ha la cedolare secca, ovvero una flat tax del 20% sui redditi da affitti. Ammettiamo che un ricco rentier abbia 10 appartamenti, affittati a 1000 euro l’uno. Sui suoi 10mila euro di reddito mensile, pagava circa un 40% di imposte. Con la nuova legge paga il 20%, con un risparmio di 2mila euro al mese. Ammesso ed assolutamente non concesso che la cosa riesca a far emergere contratti finora in nero, si tratta in ogni caso di un gigantesco sgravio fiscale sulle rendite immobiliari, ovvero l’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno. Discorsi analoghi si possono fare sugli incentivi (sulle auto, sugli elettrodomestici, sulle rinnovabili,…), concessi quasi sempre senza una visione strategica di politica industriale, soltanto in seguito al grido di dolore di questo o quel settore in crisi. E sugli ammortizzatori sociali, sugli incentivi agli straordinari etc. etc. Della situazione degli investimenti, che merita un’analisi più approfondita, si occuperà una delle prossime puntate del Pugno.
4)      Non tutte le riforme che aiutano la crescita debbono prevedere spesa pubblica. Per fare tre esempi familiari a tutti, le leggi su parafarmacie, bed&breakfast e agriturismo hanno creato migliaia di opportunità di lavoro per giovani, donne e al sud, senza alcun aggravio per le casse dello Stato, che anzi hanno finito col guadagnarci gettito fiscale. Analoghi effetti benefici possono venire da misure di semplificazione, delegificazione, liberalizzazione etc. Il governo si è dotato di un ministero delle Riforme e di uno della Semplificazione, ambedue in robuste mani celtico-leghiste. Il meno che si possa dire è che l’uno non ha riformato, l’altro non ha semplificato. Al contrario, il governo è apparso ostaggio delle mille microlobby che lo sostengono, dai tassisti ai farmacisti agli avvocati (si veda la vicenda della conciliazione) ai gestori delle spiagge. La riforma degli ordini professionali, per essere sicuri di non scontentare nessuno, è stata affidata agli ordini professionali. Il risultato è un’economia in cui tutto è bloccato ed ingessato, con un’isola di liberismo sfrenato solo nei contratti dei precari, per la maggior parte giovani. L’unico contributo di Tremonti in materia è stata la proposta di modifica dell’articolo 41 della Costituzione, non esattamente una priorità per le imprese e i cittadini.
Da tempo oramai Tremonti si è convinto di poter svolgere un ruolo di primo piano nel centrodestra del dopo Berlusconi. Ultimamente si è perfino cimentato nel ruolo per lui insolito di comiziante. A Bologna ha tirato fuori dal cilindro una serie di battute geniali, sostenendo ad esempio che se la sinistra avesse vinto, il sindaco dopo Merola si sarebbe chiamato Alì. Non sembra che i bolognesi abbiano apprezzato. Probabilmente se riuscisse a far crescere il PIL di qualche punto in più nei prossimi 2 anni la sua carriera da leader nascerebbe sotto una stella migliore.
Nunzio
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