L’Europa tra delusione e speranza [2/3]

di Alain de Benoist
da diorama.it
 
 
II. la speranza?
 

Malgrado le delusioni che ha provocato, la costruzione europea rimane più necessaria che mai. Perché? In primo luogo per permettere a popoli europei troppo a lungo lacerati da guerre e conflitti o rivalità d’ogni sorta di riprendere coscienza della comune appartenenza ad una medesima area di cultura e di civiltà e di assicurarsi un destino comune senza doversi mai più contrapporre. Ma anche per ragioni connesse al momento storico che stiamo vivendo.

Nell’epoca della modernità tardiva – o della postmodernità nascente –, lo Stato nazionale, entrato in crisi fin dagli anni Trenta, diventa ogni giorno più obsoleto, mentre i fenomeni transnazionali continuano ad accrescersi. Non è che lo Stato abbia perso tutti i suoi poteri (in certi ambiti, come la sicurezza, tende al contrario ad aumentarli di continuo attraverso le regolamentazioni), ma ha smesso di produrre socialità e non può più far fronte ad imprese che oggigiorno si estendono a livello planetario. In un universo dominato dall’incertezza e dai rischi globali, nessun paese può sperare di venire a capo da solo dei problemi che lo riguardano. Per dirla altrimenti, “gli Stati nazionali – forti o deboli che siano – non sono più le entità primarie che consentono di risolvere i problemi nazionali”[xxx]. In queste condizioni, l’unico interrogativo che si pone è “capire se gli europei vogliono oppure non continuare a svolgere un ruolo nella storia”[xxxi] o sono già rassegnati a diventare oggetto della storia degli altri.

Una delle ragioni profonde della crisi della costruzione europea consiste nel fatto che nessuno appare capace di risponde alla domanda “che cos’è l’Europa?”. Eppure le risposte non mancano; nella maggior parte, però, sono convenzionali e nessuna trova tutti concordi. Orbene: la risposta alla domanda “che cos’è l’Europa?” condiziona la risposta ad un’altra domanda: “cosa deve essere?”.

Tutti sanno bene, infatti, che non vi è alcuna comune misura fra un’Europa che cerchi di costituirsi come una potenza politica autonoma, con frontiere chiaramente definite e istituzioni politiche comuni che funzionino democraticamente, e un’Europa che non sarebbe altro che uno spazio di libero scambio aperto ai “grandi orizzonti”, destinato a diluirsi in uno spazio illimitato, in larga misura spoliticizzato o neutralizzato e funzionante solo sulla base di meccanismi decisionali tecnocratici e intergovernativi. Tutti sanno bene anche che l’allargamento frettoloso dell’Europa e l’incertezza esistenziale che pesa oggi sulla costruzione europea non possono che favorire il secondo modello, d’ispirazione “anglosassone” o “atlantica”. Scegliere tra questi due modelli significa anche scegliere tra la politica e l’economia, la potenza della Terra e la potenza del Mare. Coloro che si occupano della costruzione europea in genere purtroppo non hanno la benché minima idea in materia di geopolitica. L’antagonismo tra le logiche terrestre e marittima sfugge loro. Non vedono per quali motivi la globalizzazione oggi obblighi a pensare in termini di continenti[xxxii].

Il generale de Gaulle aveva sin dal 1964 definito perfettamente il problema: “Ma quale Europa? Questo è il punto da discutere […] Secondo noi, francesi, occorre che l’Europa si faccia per essere europea. Un’Europa europea significa che essa esiste di per se stessa e per se stessa, ovvero che in mezzo al mondo abbia la propria politica. Orbene, è proprio questo ciò che respingono, consapevolmente o inconsapevolmente, taluni che tuttavia sostengono di volere che essa si realizzi. In fondo, il fatto che l’Europa, non avendo una politica, resterebbe assoggettata a quella che le verrebbe dall’altra sponda dell’Atlantico pare loro, ancora oggi, normale e soddisfacente”. Già tre anni prima, aveva detto: “L’Europa integrata in cui non vi fosse politica si metterebbe a dipendere da qualcuno di fuori, che invece ne avrebbe una”.

Anche François Bayrou ha ben riassunto la situazione: “Sin dal primo giorno della costruzione europea, due modelli sono in guerra. Il modello britannico, quello di una zona di libero scambio, senza altri scopi al di fuori di quello economico, ornato, per sembrare bello, dell’apparenza di una concertazione governativa, e il nostro modello, il modello franco-tedesco, di una potenza politica in formazione. Il dissolversi della volontà europea dà la vittoria al modello della zona di libero scambio”[xxxiii].

L’Europa è prima di tutto forte di ciò che l’ha fatta, ma la sua storia è tutto fuorché una storia semplice. È la storia di una serie di notevoli trasformazioni interne e di apporti successivi che si sono trapiantati, più o meno felicemente, su un’entità la cui eredità fondamentale deriva nel contempo da una fonte autoctona, le culture latine, greche, celtiche, germaniche e slave dell’Antichità precristiana, e da una fonte importata da lunga data, il cristianesimo. Ciò fa capire il carattere complesso dell’Europa e il carattere illusorio di ogni atteggiamento che miri a ridurla ad una soltanto di queste componenti a detrimento delle altre. A seconda dei gusti e delle convinzioni, ovviamente si potrà sempre privilegiare questa o quella di tali componenti, questa o quell’epoca, questo o quel luogo. In realtà, non è sbagliato dire che da duemila anni a questa parte la storia dell’Europa è una storia contraddittoria, e riconoscere che “ciò che lacera il Vecchio continente in conflitti intestini è anche ciò che ne costituisce la singolarità storica e l’identità collettiva”[xxxiv].

Questo significa che non bisogna sottovalutare, come sono portati a fare certi sostenitori di un’Europa ideale, le profonde diversità del continente europeo. Tra il finlandese e il napolitano, l’abitante du Dublino e quello di Dubrovnik, i riferimenti non sono gli stessi, la mentalità non è la stessa e la comprensione non è scontata. Questo significa inoltre che non si può definire l’Europa facendo unicamente riferimento al suo passato, cioè alla sua storia empirica, così come non si può fare tabula rasa di quel passato. Prendere in considerazione soltanto la “memoria” storica significa dar prova di un modo di pensare antistorico, nella misura in cui la storia include il passato ma non si riduce ad esso, e per giunta è indissociabile dall’interpretazione che essa ne dà. Infine, come ogni realtà collettiva, l’Europa ovviamente ha delle fondamenta etniche, ma non è un progetto etnico: l’Europa non ha vocazione a radunare tutti gli individui o tutti i popoli di origine europea che vivono oggi nel mondo, ma ad offrire un contesto istituzionale comune agli abitanti del continente europeo. Qui l’aspetto geografico, e dunque anche geopolitico, è determinante.

Chi sogna un’Europa senza frontiere coltiva evidentemente l’ambizione di vedervisi gradualmente integrare tutti i paesi vicini, in attesa dei paesi lontani. In quest’ottica, “l’Europa” non è più altro che l’abbozzo di una Repubblica universale o di uno Stato mondiale. I sostenitori di un progetto di questo tipo svolgono in genere le proprie argomentazioni partendo dai “valori universali”: all’Europa apparterrebbero tutti i paesi che rispettano i “valori universali” che essa ha inventato nel corso della sua storia, cioè potenzialmente il mondo intero. Vale la pena soffermarsi su questo punto.

È un dato di fatto che l’Europa, sin dalle origini, si è sforzata di concettualizzare l’universale, ha preteso di essere, con le migliori e le peggiori intenzioni, una “civiltà dell’universale”, in primo luogo attraverso il concetto di obiettività. Aporia maggiore: l’Europa è l’unica ad aver voluto pensare l’universale, ma l’universale, quando non è la semplice maschera di un inconfessato etnocentrismo, è anche ciò che la pone di fronte al rischio di non sapere più quel che è. Da questa aporia è possibile uscire solo sottolineando che “civiltà dell’universale” e “civiltà universale” non sono sinonimi. Secondo un bel detto spesso citato, l’universale, nel senso migliore del termine, è “il locale meno le mura”.

L’ideologia dominante ignora proprio la differenza tra “civiltà universale” e “civiltà dell’universale”. Per disposizione dei suoi rappresentanti, l’E uropa è stata condannata all’ignoranza di sé – e al “pentimento” per ciò che è ancora autorizzata a ricordare –, mentre la religione dei diritti dell’uomo universalizzerebbe l’idea del Medesimo. Un umanesimo privo di orizzonte si è così assegnato il ruolo di giudice della storia, facendo dell’indistinzione l’ideale redentore e celebrando di continuo il processo all’appartenenza che rende specifici. Come ha affermato Alain Finkielkraut, “ciò significava che, per non escludere più nessuno, l’Europa doveva disfarsi di se stessa, “desoriginarsi”, conservare della propria eredità esclusivamente l’universalità dei diritti dell’uomo […] Noi non siamo niente, è la condizione preventiva perché non siamo chiusi a niente e a nessuno”[xxxv]. “Vacuità sostanziale, tolleranza radicale”, ha potuto scrivere nello stesso spirito il sociologo Ulrich Beck, mentre è invece il senso di vuoto a rendere allergici a tutto. L’Europa può infatti essere accogliente verso gli altri solo nella misura in cui è cosciente del modello di civiltà che la caratterizza. L’apertura non ha senso nel vuoto; essa implica la capacità di scambio e di dialogo fra partners chiaramente situati.

Jean-Louis Bourlanges osserva che si “è preteso di “costruire l’Europa” sulla base del riconoscimento di valori universali – la pace, la libertà, la democrazia, i diritti della persona – e non dell’aggregazione e della sintesi delle particolarità geografiche, storiche e culturali proprie dei differenti popoli del Vecchio Continente […] Quel che definisce l’europeo degli ultimi cinquant’anni è la sua volontà di sfuggire alla propria condizione storica per accedere alla condizione umana”[xxxvi]. Ma, aggiunge, “l’Europa non è tanto la terra di coloro che praticano la democrazia, quanto la terra di coloro che l’hanno inventata”[xxxvii]. Ed ancora: “Essere europeo significa ereditare una storia e condividere attraverso quel lascito ricevuto e rivendicato una certa maniera di vivere, di pensare e di sentire la propria relazione con la politica”[xxxviii]. Questo lascito non deve certamente essere considerato un’essenza, un deposito intangibile che si trasmette in forma identica di generazione in generazione, bensì una sostanza complessa, associata ad una maniera specifica di trasformare se stessi, nonché a una capacità permanente di narrarsi[xxxix].

L’identità europea non esclude i valori universali, ma può fondarsi su di essi. Se l’Europa ha come esclusiva vocazione affermare “valori universali”, la costruzione europea non è altro che l’inizio di un progetto universale. Come scrive Slavoj Zizek, “se la difesa dell’eredità europea si limita alla difesa della tradizione democratica europea, la battaglia è persa prima di cominciare”[xl]. L’Europa in realtà deve avere l’ambizione di essere nel contempo una potenza capace di difendere i propri interessi specifici, un polo regolatore in un mondo multipolare o policentrico e un progetto originale di cultura e di civiltà.

Per raggiungere questo obiettivo non si può contare sugli ambienti liberali, che hanno sì contribuito alla costruzione europea, ma in essa hanno visto soltanto una tappa in vista dell’avvento del liberoscambismo mondiale. Hanno scritto a tale proposito Ulrich Beck e Edgard Grande: “L’obiettivo del neoliberalismo globale non è la creazione di un mercato unitario europeo, bensì la liberalizzazione mondiale dell’economia. E dal momento in cui queste due dimensioni entrano in contraddizione, dal momento in cui l’Europa si trasforma in “fortezza” e viene proposto di restringere il raggio di azione del capitale, il neoliberalismo diventa antieuropeo […] La costruzione di un’architettura istituzionale in Europa non è che un mezzo, non un fine in sé: è la creazione di un’agenzia incaricata di porre in esecuzione la parola d’ordine “meno Stato””[xli].

Gli Stati Uniti non hanno mai adottato una politica diversa da questa. Al contrario: il loro atteggiamento nei confronti dell’Europa ha sempre obbedito agli stessi principi: sì a un’Europa del libero scambio, no all’emergere di un concorrente o di un rivale (un “peer competitor”) che possa dotarsi di mezzi atti a farne un attore internazionale di spicco. Come Zbigniew Brzezinski ha spiegato senza giri di parole: “Un’Europa emergente in ambito militare sarebbe un concorrente formidabile per l’America. Inevitabilmente, costituirebbe una sfida per l’egemonia americana. Un’Europa politicamente forte, che non dipendesse più militarmente dagli Stati Uniti, metterebbe per forza in discussione il dominio americano e limiterebbe la supremazia degli Stati Uniti alla regione del Pacifico”.

Ai tempi della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno certamente incoraggiato la costruzione europea. Fra il 1949 e il 1959, in piena guerra fredda, hanno anzi versato l’equivalente di 50 milioni di dollari attuali ai movimenti europeisti, attraverso i servizi segreti o servendosi dell’American Committee for United Europe (ACUE), fondato nel gennaio 1949 sotto la presidenza di William Donovan, creatore nel 1942 dell’Office of Strategic Services (OSS), antenato della CIA[xlii].

Nel 1952 è sempre Washington ad ispirare direttamente il progetto di Comunità europea di difesa (CED), che avrà il sostegno del Vaticano ma che i gollisti e i comunisti faranno fallire due anni dopo. Questo aiuto ai movimenti europeisti si colloca nella cornice della strategia del “contenimento” teorizzata fin dal 1947 dal diplomatico americano George Kennan per contrastare l’Unione sovietica. Costruire l’Europa significa allora riempire un vuoto che Stalin minaccia di riempire e di conseguenza proteggere gli Stati Uniti. Nel contempo, sotto l’egida della NATO che controllano, essi non si nascondono di volersi avvalere sul piano militare di capacità europee complementari, ma soprattutto non autonome.

Dopo il crollo del sistema sovietico e la scomparsa dell’ordine bipolare ereditato da Yalta, gli Stati Uniti si sono sforzati di rafforzare la loro posizione egemone, soprattutto con un ritorno all’uso smodato dello “hard power”. Nel contempo hanno ridefinito la missione della NATO, ormai dotata di una portata “globale” (la ristrutturazione dell’Alleanza atlantica è stata confermata nel novembre 2002 con la firma, a Praga, del secondo allargamento della NATO a beneficio dei paesi baltici, della Romania e della Bulgaria), e sfruttato i disaccordi tra la “vecchia Europa” e l’Europa centrale e orientale, ieri baluardo dell’Unione sovietica, in cui sperano di trovare nuovi alleati per accerchiare la Russia ed incoraggiano e finanziano ogni sorta di “rivoluzioni pacifiche” miranti ad “instaurare la democrazia”, vale a dire a creare una società di mercato.

Questa alleanza transatlantica è in realtà diventata un non-senso dopo la fine del sistema sovietico. Gli interessi europei ed americani sono strutturalmente divergenti. Dal punto di vista geopolitico, l’Europa e gli Stati Uniti rappresentano due entità, una terrestre e l’altra marittima, che non possono che scontrarsi. Sul piano militare, un disaccoppiamento all’interno della “difesa occidentale” è inevitabile. Tutti i sondaggi d’opinione mostrano che la grande maggioranza degli europei vogliono un’Europa indipendente dagli Usa[xliii]. Non si deve esitare a dirlo: l’Europa si farà solo contro gli Stati Uniti, giacché questi ultimi non accetteranno mai l’emergere di una potenza rivale.

Per il momento, l’Europa rappresenta un’innegabile potenza economica pur restando, come la Germania dopo la guerra, un nano politico. E anche questa potenza non dev’essere sopravvalutata. Dal 2006, l’Europa è surclassata dai grandi paesi dell’Asia (India e Cina). “Un grande mercato comune integrato, una moneta unica forte […] procurano effettivamente grandi vantaggi concorrenziali alle imprese europee, che vedono migliorare le loro possibilità di sopravvivenza su mercati in via di globalizzazione. Ma ciò non produce ancora una “comunità economica” europea che possa essere una sorta di grande nazione, come taluni avevano sperato”[xliv]. Tanto più che la nozione di “preferenza europea” o di “preferenza comunitaria” non è attualmente contemplata in alcun trattato.

Sul piano della difesa, i progressi registrati negli ultimi anni rimangono molto insufficienti. Secondo le cifre comparative fornite dalla NATO, l’importo delle spese militari della Francia ha rappresentato nel 2006 l’equivalente di 579 dollari per abitante, contro i 1436 dollari degli Stati Uniti. Quattro anni fa, Hubert Védrine evocava questa alternativa: “Europa-potenza o semplice spazio di pace, di libertà e di prosperità”[xlv]. Ma la pace, come sottolinea Dominique Schnapper, “non può essere garantita dal solo godimento della partecipazione alla produzione razionale e del consumo dei beni e dei servizi, accompagnato dall’indifferenza nei confronti del resto del mondo e dalla chiusura delle frontiere”[xlvi]. La pace può essere garantita solo dal possesso degli strumenti per farla rispettare. È quanto constata Pascal Boniface quando dichiara: “Il rifiuto della potenza per se stessi non impedisce agli altri di sviluppare politiche di potenza […] Non viviamo in un mondo ideale, ma in un mondo modellato e retto dai rapporti di forza […] Non possiamo nel contempo criticare l’onnipotenza americana e non organizzare l’Europa della sicurezza per fare in modo che essa possa essere un attore strategico autonomo sulla scena mondiale”[xlvii].

In fondo”, scribe Werner Weidenfeld, “quel che manca all’Europa per agire sulla scena politica mondiale, è non solo un centro operativo, ma soprattutto un pensiero strategico. Tutte le grandi potenze dell’Europa hanno perso la loro levatura mondiale […] Nessuno di questi Stati ha sviluppato la volontà di prendere i comandi e di compensare a livello europeo questa perdita nazionale dell’orizzonte politico mondiale. Questo deficit di pensiero strategico è il vero tallone d’Achille dell’Europa”[xlviii].

La potenza non va però concepita soltanto come potenza di fuoco (tanto più che l’Europa è portatrice di un modello di organizzazione delle relazioni internazionali ben diverso da quello degli Stati Uniti). La potenza dell’Europa è anche lo sviluppo scientifico e tecnologico, la sovranità in materia di approvvigionamento energetico, la partecipazione attiva di tutti alla cosa pubblica. È soprattutto la capacità di inventare un modo di esistenza sociale che le sia caratteristico: di fronte a un sistema di produzione e di consumo che produce una miseria simbolica generalizzata, l’Europa deve poter offrire una risposta alla crisi della civiltà capitalista[xlix].

Qui il concetto chiave è sovranità. Ma bisogna essere capaci di concepirla in modo diverso da quello degli ambienti sovranisti, dei quali abbiamo già avuto modo di criticare le posizioni su questo punto[l]. I sovranisti, seguiti dai “nazional-repubblicani”, sono a favore di una concezione bodiniana della sovranità, cioè di una sovranità indivisibile tale quale la concepisce Jean Bodin, non intesa come una sovranità in ultima istanza. Ora, è un grave errore credere che per definizione la sovranità non si divida. Essa può infatti ripartirsi senza cessare di essere sovrana. Per quanto riguarda l’Europa, solo appoggiandosi alla concezione bodiniana (o hobbesiana) della sovranità si è condotti a porre l’alternativa: o la sovranità è dalla parte degli Stati membri, oppure è dalla parte dell’Unione europea (o anche: o esistono diverse regolamentazioni nazionali, oppure esiste una regolamentazione europea). Dal punto di vista della sovranità, la costruzione europea diventa allora un gioco a somma zero. Ma in realtà la sovranità legale dello Stato nazionale non equivale più, oggi, a una sovranità materiale concreta, il che vuol dire che essa non gli consente più di svolgere concretamente i compiti che da esso ci si può attendere. Viceversa, accettando l’idea di sovranità suddivisa (o ripartita) e rinunciando alla propria parte di sovranità legale, le nazioni oggi possono sperare di ritrovare per sinergia la sovranità materiale che hanno perso[li]. L’interdipendenza, in questo senso, va al di là del semplice dualismo tra nazionale e sovranazionale.

“La questione della sovranità”, diceva molto giustamente François Bayrou, “non è la prima questione della politica. È l’unica. Possiamo o no governare il nostro destino, come cittadini e come popolo? Se la risposta è no, la democrazia è nulla e non avvenuta. […] Per esercitare la sovranità dobbiamo costruire la nostra potenza. Una sola via è disponibile, la via europea. Per ritrovare la sovranità perduta delle nazioni, bisogna costruire la sovranità europea […] Esiste un’unica via verso l’unione politica dell’Europa e la sua sovranità; è la via federale, la sola che consente di volere insieme restando differenti”[lii].

La critica sovranista secondo cui non può esserci un’Europa politicamente unita poiché non vi è un “popolo europeo” ignora il fatto che la Francia ha preceduto di gran lunga l’esistenza di un “popolo francese”, di cui non si constata la piena realtà politica prima del XVIII secolo. Stato e nazione sono le “due ante indissociabili della modernità”(Marcel Gauchet), ma non appaiono contemporaneamente: in Francia, lo Stato precede di vari secoli la nazione[liii]. L’assenza di un popolo europeo, nel senso stretto (cioè politico) di questo termine, non è dunque un ostacolo alla costruzione dell’Europa, una delle cui ragioni d’essere è appunto quella di formare lo spazio pubblico nel quale possa sbocciare una cittadinanza europea[liv]. Quanto alla forma repubblicana o ai costumi democratici, contrariamente a quanto sostiene Dominique Schnapper[lv], esse non sono nella loro essenza legate allo Stato nazionale. Resta infine da capire se la nozione di popolo debba essere collegata in primo luogo alla nozione di nazionalità o a quella di cittadinanza, perché queste ultime due non sono sinonimi: soltanto la cittadinanza è una nozione intrinsecamente politica (in un’ottica non giacobina, si potrebbe essere nel contempo di nazionalità bretone e cittadino francese, così come si potrebbe essere di nazionalità francese e cittadino europeo[lvi].

Un tipico errore del modo di ragionare ispirato al principio dell’ontologia nazionale consiste nell’analizzare i rapporti fra la sovranazionalità e le sovranità nazionali come un gioco a somma zero (tutto ciò che sarebbe guadagnato dall’una sarebbe automaticamente perso dalle altre) invece di analizzarlo come un gioco a somma positiva, il che è possibile tenendo conto della logica di inclusione additiva e degli effetti di retroazione. Un altro errore, parallelo, è quello di credere che le competenze nazionali e sovranazionali possano essere chiaramente e stabilmente separate, quando invece sono in realtà intricate in un sistema di interazione complessa. Questo ragionamento, rendendo incapaci di cogliere le specificità del progetto europeo, impedisce anche di vedere che lo Stato nazionale è già stato trasformato dall’apparizione di una molteplicità di forme di potere transnazionale che vanno oltre sia la nazione che l’Europa, e che la costruzione di un’Europa politica potrebbe appunto essere un modo di fronteggiarle.

I sovranisti vogliono in genere ridurre la costruzione europee ad iniziative intergovernative: l’“Europa delle nazioni” (o “delle patrie”) è l’intergovernatività. Ma “l’intergovernatività è la zona di libero scambio. Le due parole sono sinonimi”[lvii]. Senza rendersene conto, opponendosi all’Europa-potenza, i sovranisti favoriscono automaticamente l’Europa del libero scambio, che pure la maggior parte di loro respingono esplicitamente. Arcaica e irreali sta, l’opposizione dei sovranisti all’Europa in nome dello Stato nazionale sfocia non nella salvaguardia delle nazioni, ma nel declino o nella stagnazione dell’Europa e al suo “sganciamento” sempre più accentuato sulla scena internazionale.

La difficoltà di analisi deriva dal fatto che l’Europa di Bruxelles rimane un oggetto istituzionale non identificato. Contrariamente a ciò che talvolta si dice, non è né una federazione sovranazionale né una confederazione intergovernativa[lviii]. E neppure è propriamente un “super-Stato”, così come non è una semplice “organizzazione internazionale”, cosicché in definitiva nessuno sa bene come definirla: rete istituzionale, forma particolare di interdipendenza transnazionale a più livelli, sovrastruttura parastatale, Stato “consociativo”, insieme di reti di governance, e così via[lix]. L’integrazione europea è stata sin dall’inizio un processo dinamico dal risultato aperto, sia verso l’interno (crescita costante delle competenze dell’Unione europea) sia verso l’esterno (allargamento non meno costante a nuovi paesi). La Commissione europea, da sola, cumula funzioni legislative, esecutive, politiche, economiche e amministrative totalmente inedite. E di fronte a questa nuova realtà, ognuno tende a proiettare sull’Europa la propria struttura istituzionale. La cultura politica centralizzatrice della Francia spiega perché la sua classe politica non si sia mai seriamente occupata del problema della ripartizione delle competenze. In generale, la costruzione dell’Europa è un po’ ovunque percepita – sia che ci se ne rallegri, sia che ci se ne rattristi – come la messa in opera di un principio regolativo mirante all’omogeneità ricalcato sulle principali caratteristiche della dottrina classica dello Stato, mentre il concetto classico di “Stato” non permette in alcuna maniera di cogliere la realtà dell’“Europa” odierna.

Da questo punto di vista, Ulrich Beck e Edgar Grande non hanno torto quanfo affermano che “l’esempio dell’Europa dimostra nel modo più chiaro possibile sino a che punto i nostri concetti politici e l’attrezzatura teorica delle scienze sociali siano diventati estranei alla realtà e inoperanti – poiché restano intrappolati nell’apparato concettuale del nazionalismo metodologico”[lx]. Ciò è particolarmente vero in Francia, dove l’Europa è sempre pensata a partire da un quadro concettuale legato al modo particolare di costruzione dello Stato nazionale. Anche altrove, molti critici dell’Europa ma anche suoi sostenitori attestano la medesima incapacità a oltrepassare mentalmente il modello dello Stato nazionale. Essi ragionano come se l’Europa dovesse necessariamente essere concepita come una nazione allargata, una “grande nazione” più vasta delle altre. I sovranisti non vogliono integrarsi in una nazione di quel genere perché non vi si riconoscono, mentre altri sognano una “nazione europea” che riproduca su più grande scala tutte le caratteristiche repubblicane e unitarie delle nazioni “classiche”[lxi].

L’Europa in realtà non ha lo scopo di cancellare le nazioni, bensì di oltrepassarle nel senso hegeliano del termine, separando la nazione dallo Stato. Le nazioni sono realtà storiche che devono essere tenute in conto, in un’ottica segnata dall’applicazione sistematica del principio di sussidiarietà, allo stesso titolo delle regioni, delle “aree-sistema” e dei territori articolati intorno alle grandi città. L’Europa deve restare anche nazionale, anche se non sarà mai esclusivamente nazionale.

Non è dunque tanto la nazione che bisogna cercare di ritrovare a livello europeo, ma è la politica che bisogna reintrodurvi. Si parla giustamente di “costruzione europea”. Ogni costruzione implica una decisione, ogni costruzione politica esige una decisione politica. Ma una decisione politica senza legittimità democratica non comporta né fiducia né obbedienza. Il che implica la creazione di istituzioni politiche europee che non siano colpite dall’attuale deficit di democrazia ma costituiscano un luogo di decisione e di regolamento dei conflitti secondo regole accettate da tutti.

Una cittadinanza postnazionale deve rimanere una cittadinanza politica (non ce n’è un’altra), che non si può svolgere e mettere alla prova se non all’interno di uno spazio pubblico organizzato a tale scopo. Per iniziare, si potrebbe far sì che i membri del Parlamento europeo, oggi non in grado di funzionare come un parlamento vero soprattutto a causa della pluralità degli spazi politici europei, si presentino alla prova del voto non su liste nazionali ma su liste composte a seconda degli orientamenti politici, affinché le elezioni “europee” perdano il significato prima di tutto nazionale che ancora oggi hanno. Ma rimediare al deficit democratico dell’Europa non vuol dire limitarsi ad accrescere i poteri del Parlamento europeo. Significa anche incoraggiare l’“europeizzazione” delle lotte sociali e ricorrere a nuove prassi di democrazia partecipativa (o “consociativa”) a tutti i livelli: azione locale, organizzazione di referendum europei di iniziativa popolare, ecc.[lxii]. Essendo lo spazio pubblico prima di tutto il luogo delle prassi sociali, si tratta di dare un contenuto concreto a una cittadinanza ancora astratta che non può ridursi ad associare individui sgombrati delle loro eredità, delle loro fedeltà e delle loro passioni.

L’obiettivo non sarebbe più, allora, realizzare l’unità dell’Europa riducendone la diversità, tramite soprattutto una regolamentazione sovranazionale omogenea, bensì far poggiare la costruzione europea sulla considerazione di questa diversità, attraverso la messa in opera di un principio di integrazione differenziata, asimmetrica, a geometria variabile. Come scrivono Beck e Grande, “la diversità non è il problema, ma la soluzione”[lxiii].

Non essendo praticabile il modello dello Stato nazionale, verso quale modello alternativo ci si può volgere? La storia dell’Europa ne suggerisce uno: quello dell’Impero. Peter Sloterdijk è uno di coloro che hanno colto l’affinità fra la costruzione europea e il modello imperiale. Ingiungendo agli europei di rompere con le “ideologie dell’assenza”, egli reputa che l’Europa sia “un teatro per le metamorfosi dell’Impero”, il che lo conduce a raccomandare un “trasferimento decisivo dell’Impero verso un’unione di Stati continentale e paneuropeo”[lxiv]. Ciò rende necessario, ovviamente, intendersi sul concetto di Impero.

L’Impero di cui qui si discute non ha naturalmente niente a che vedere con gli imperi coloniali o con gli imperialismi moderni. L’Europa di Napoleone e di Hitler non era altro che un espansionismo nazionale. Così come le “grandi potenze” (great powers) non sono imperi, ma Stati forti. Nello Stato nazionale, la nazione, nata da una presa di possesso territoriale-patrimoniale, è il risultato della semplice adesione degli individui allo Stato, giacché la loro solidarietà discende esclusivamente dalla comune appartenenza amministrativa a quello Stato. La cittadinanza in quel caso è solo una formalità amministrativa. Cittadinanza e nazionalità sono, inoltre, automaticamente sinonimi, il che pone il problema delle minoranze nazionali (linguistiche, culturali o di altro genere). L’Impero corrisponde viceversa alla personificazione giuridica e all’espressione politica di una o di molteplici comunità fondate su solidarietà naturali diverse dalla consanguineità. Cittadinanza e nazionalità sono distinte. Gli imperi non sono soltanto Stati più grandi o più estesi degli altri. I veri imperi sono sempre plurinazionali. “Riuniscono più etnie, più comunità, più culture, un tempo separate, sempre distinte”[lxv].

L’Impero organizza i rapporti di potere in una maniera del tutto diversa dallo Stato nazionale, nella misura in cui la forma di dominio che incarna “mira costantemente a dominare dei non-dominati”[lxvi], appoggiandosi non tanto al potere gerarchico del comando quanto sul plusvalore politico apportato dalla cooperazione delle differenti entità politiche che ingloba. Lo Stato nazionale moderno mira peraltro all’omogeneità delle norme e delle regolantazioni, che è garantita giuridicamente dall’eguaglianza formale dei diritti, mentre gli imperi tendono ad instaurare norme asimmetriche o differenziate in funzione delle specificità socioculturali locali. L’Impero è una modalità di gestione e di organizzazione della diversità. È proprio questo che ha fatto dire a vari autori che l’Europa può essere pensata unicamente sul modello dell’Impero, ma di un impero “post-imperialista”, adattato al nostro tempo, vale a dire privo di mire egemoniche.



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